Milano Calibro 9

Dopo aver scontato 3 anni di carcere, il criminale Ugo Piazza è sospettato dai suoi compari di essersi impossessato di 300000 dollari.
    Diretto da: Fernando Di Leo
    Genere: poliziesco
    Durata: 100'
    Con: Gastone Moschin, Barbara Bouchet
    Paese: ITA
    Anno: 1972
7.8

“Se continua così, vedrai che fanno l’antimafia pure pe’ Milano!”, dice Don Vincenzo (Ivo Garrani) in Milano Calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo. Per “così”, bisogna intendere tra regolamenti di conti, boss che fanno il bello ed il cattivo tempo, doppiogiochismo, associazioni a delinquere, grana e lenoni.

Questa Milano, cupa, invernale, più noir che poliziottesca, traduce su pellicola le tinte letterarie delle opere di Giorgio Scerbanenco. Il titolo del film è tratto da un’antologia di racconti dello scrittore di origine ucraina, ma la storia riprende il racconto Stazione centrale ammazzare subito, ispirandosi però, nel personaggio del protagonista Ugo Piazza (Gastone Moschin), ad altri due racconti: Vietato essere felici e La vendetta è il miglior perdono. Un lavoro notevole, considerando, come spiegò Di Leo in un’intervista a Nocturno, che dovette comunque inventarsi molto, anche se non tutto, a differenza di quanto dichiarato: “di Scerbanenco c’è poco, qualche spunto; scrissi io tutto il plot, i dialoghi, le psicologie, l’ambientazione”. Lo fece e bene, ma senza la millantata verginità mentale dalla letteratura. Vietato essere felici, intanto.

Uno di quei titoli alla James Hadley Chase, amari, beffardi: un titolo cucito sulla pelle piena di cicatrici di qualche anti-eroe destinato alla sconfitta. Ugo Piazza è libero, dopo un po’ di anni in gattabuia. Ma non può essere felice. La sua ex banda, guidata dall’Americano (Lionel Stander), lo bracca, ritenendolo colpevole di aver intascato 300.000 dollari anni prima. Nel frattempo, Piazza viene riassunto dai vecchi compari, forse per essere tenuto d’occhio. Ritrova una vecchia fiamma, Nelly (Barbara Bouchet), e viene aiutato economicamente da Don Vincenzo, malandato boss della mafia, ed il nipote Chino (Philippe Leroy).

Quando tra picciotti e banda dell’Americano i nervi diventano tesi, la posizione di Piazza diventa ancora più scomoda. Milano, appunto: una città su cui la criminalità ha messo le mani, come negli altri due film della cosiddetta trilogia del milieu di Fernando Di Leo, La mala ordina (sempre del ’72) e Il boss (’73). Non si mettono d’accordo né i malavitosi, né gli uomini di legge: la parte più “ideologica” di un film, che per il resto è serrato e ricco di svolte, è quella in cui si scontrano verbalmente un vicecommissario fresco di nomina (Luigi Pistilli), istruito e progressista, convinto che dalla sperequazione sociale ed economica si originino gli affari criminali, ed il suo diretto superiore (Frank Wolff), uno sbirro hard boiled in giacca, dai metodi più spicci, più interessato alla fondina che a Marx e dintorni.

I conflitti della questura costituiscono, per certi versi, la parte più propriamente “italica” del film, quella poliziottesca, specie per un abile delineamento del contorno giuridico e sociale della vicenda: il riferimento alla condizione disumana delle carceri tramite il cenno all’amnistia, che ha consentito ad Ugo Piazza di uscire dal carcere; il conflitto nord-sud implicito tanto nello scontro tra il Commissario con il suo vice, quanto nel trasferimento di quest’ultimo in Basilicata (dal Bronx al terzo mondo), quanto, ancora, nello scontro tra Don Vincenzo e Chino, da una parte, ed i milanesi dall’altra; il suggerimento del vicecommissario di indagare sui movimenti di capitali della Borsa di Milano, possibile valvola di sfogo dei proventi illeciti. A dispetto di questa cornice by night, certo, marcatamente plumbea per esigenze “romanzesche”, ma credibile, i fatti si susseguono con rovesciamenti di fronte e velocità di bossoli da far pensare più ad una putrida Chicago trasportata sul Naviglio insanguinato con la brutalità europea di un Melville o di un Don Siegel.

Questa trasfigurazione della criminalità nostrana in una ganster-piovra, con la benedizione del padrino stars and stripes, avviene anche per via della capacità “iconica”, più che interpretativa, dei bravissimi attori: Gastone Moschin, gelido ed ambiguo, parla poco come il più dritto degli scagnozzi; Philippe Leroy è un uomo d’onore formato commando; Mario Adorf, indimenticabile nella scena finale ed a proprio agio nel genere, è un bravaccio di violenza rozza e guascona. Si aggiunga una Barbara Bouchet incantevole e dalle gambe scivolose, protagonista, peraltro, di una delle scene più ipnotiche del film: una danza semi-nuda, elettrica, nella penombra del tabarin, livida per la nebbia delle sigarette, con inquadrature lisergiche dal basso e rotazioni della macchina da presa.

Le pulsazioni di quel funk rammentano, peraltro, la riuscitissima colonna sonora curata da Louis Enriquez Bacalov, con gli Osanna a costruire un muro di suono hard-barocco. Non è l’unico aspetto del film a conferire un aspetto vintage: le etichette del whiskey J&B e dell’acqua Boario ed i posacenere della Carpano fanno ancora più seventies di quel progressive prestato al soundtrack. Nel complesso, quindi, Milano Calibro 9 è in qualche modo rispettoso della propria origine letteraria: è romanzesco, cioè, ma con più di un tratto realista; trapianta un’iconologia narrativa da pulp americano in un contesto italiano; costruisce sagome dal sangue caldo del Mediterraneo, confrontandole (e scontrandole) in un underground gangster alla Dashiell Hammett.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".