Avere vent'anni

Le avventure di Tina e Lia, due giovani e disinibite ragazze di provincia, a caccia di emozioni forti. Le due ragazze arrivano in città facendo autostop, e si aggregano ad una comitiva dove si pratica l'amore libero e si sperimentano droghe.
    Diretto da: Fernando Di Leo
    Genere: commedia
    Durata: 94'
    Con: Gloria Guida, Lilli Carati
    Paese: ITA
    Anno: 1978
6.6

“Io sono giovane, bella e incazzata”, dice Tina (Lilli Carati). “Anche io sono bella, giovane e un po’ incazzata” risponde Lia (Gloria Guida), con voce calante e strategico cambio d’ordine degli addendi. E la somma, davvero, cambia: perché ne vien fuori, in meno di venti strategiche parole, una sfumata differenza caratteriale tra le due donne: una sfrontata e sempre sull’orlo dell’incazzatura (specie quando c’è da reclamare di “scopare”), l’altra a cui le cose sembrano capitare. Ma l’orizzonte, incerto, è probabilmente lo stesso, ed è ancora sulla punta delle labbra dell’incantevole Gloria Guida che si profila: “però, che cosa farò, non lo so”.
Così, dopo la musica sulla spiaggia post-falò ed il bagno insieme ai sonnolenti nudisti semi-fumati, la bruna e la bionda cominciano a condividere il proprio percorso, senza vera bussola: si comincia con l’autostop, si passa nella comune romana del Nazariota (Vittorio Caprioli), dove la droga va più del sesso e le due si danno al fai-da-te di coppia; poi si finisce a vendere enciclopedie tra un ammiccamento ricevuto – da Tina – e subito – da Lia. Ma poi la polizia s’incazza, e le due finiscono di nuovo a fare le autostoppiste, con troppa libertà e nessuna paura (di provocare).

NON SONO UNA SIGNORA – Nell’anno del Signore 1978, anzi, delle non-signore, delle femministe figlie della rivoluzione sessuale, Avere vent’anni di Fernando Di Leo registrava un deludente risultato ai botteghini, ma soprattutto incorreva in una censura spietata, con tanto di sostituzione del finale, pressoché mutato di segno e trasformato in un happy end.
Era l’anno successivo all’esplosione del punk, la prima decade dopo il sessantotto, con l’onda lunga di una lotta incompiuta trasformatasi in una festa un po’ noiosa, come emerge dalla galleria di vacui, sbandati e cialtroni della comune romana. Da poco, inoltre, in Italia era passata la legge sull’aborto, così come quella sul divorzio, in pieno clima di emancipazione.
Ma più che costituire lo sbocco felice di una storia di affrancamenti – un happy end, appunto – il racconto di Di Leo sembra denunciare la deriva post-sessantottina divenuta hippie end: “il femminismo è una cosa troppo seria per farla fare alle femministe”, reclama uno dei personaggi, Riccetto (Vincenzo Crocitti), lo stesso che poco prima era stato inquadrato a leggere i testi della rivoluzione culturale… comodamente seduto sul cesso.
C’ERAVAMO TANTO ARMATI – La battaglia è finita in mano ad un manipolo di pagliacci, dunque, e i divertiti inserti da commedia sono funzionali a dissacrare la nuova, pacifica armata brancaleone. Emblematico l’interrogatorio della polizia dopo la retata, specie al Mimo col volto truccato con tanto di lacrima, che passa tutto il tempo in un altrove mentale, mentre attorno, indifferentemente, si consumano amplessi, si litiga, ci si trastulla. “Come si chiama?” – “Arguinas”, risponde il mimo con pretese misticheggianti (Leopoldo Mastelloni). La replica dell’appuntato: “Lei è sardo?”.
Così come le femministe intervistate dal documentarista intellettualoide sono riprese aggressivamente, di fronte, a snocciolare in coro una solfa che sa di vaga aspirazione eviratrice: non a caso, il vedovo a cui le due ragazze cercano di vendere l’enciclopedia definisce la moglie defunta “un cesso castrante”, e nella scena di ballo in osteria nell’ultima parte, quando le due protagoniste senza meta si lanciano in una danza disinibita davanti ad una tavolata di maschiacci, uno degli improvvisati ballerini viene inavvertitamente (?) colpito alle parti basse ed è costretto a sedersi. L’ideale è diventato idealismo, peggio, ideologismo da farsa: e il problema è che fa ancora adepti in buona fede.
L’ULTIMO AUTOSTOP – Così, una seduttrice (la Carati), l’altra seducente (la Guida), entrambe le giovani sono invero se-dotte, se in latino se-ducere vuol dire, letteralmente, “portare a sé”. Trascinate, cioè, a destra e a manca, nell’illusione e nella velleità di essere libere. Sempre in bocca al vedovo c’è una frase chiave: “si vede che non siete puttane, siete spontanee e felici”.
Subito dopo, il montaggio stacca sul Mimo che dice: “siete infelici”. La lotta, svuotata di significato, produce non solo una falsa emancipazione, ma una maschera: quella del libertino sradicato. Nell’osteria, Tina e Lia vengono subito bollate come “autostoppiste”: e l’autostop, poco dopo, si apprestano a praticare, così come all’inizio.
Non c’è stop, tuttavia: c’è solo l’ultima fermata a sinistra, (SPOILER) con l’inattesa, persino avulsa svolta sexploitation dello stupro, una sadica rivincita maschile, che rivela tutti i pericoli del vagabondaggio (il reato che la polizia vorrebbe contestare alle due) tra i resti di una rivoluzione incompiuta: “tutta quella moina, sapete cosa voleva dire? Che non vogliono maschi, che ci disprezzavano!”.
In questo senso, anche le scene erotiche, oltre a consentire a due delle regine hot del cinema italiano degli anni settanta di prendersi la scena, sembrano coerenti a quel senso di spontaneità malaccorta, d’imprudente voglia di esser felici che rischia d’essere irretita in una società che così civile non è, spudoratamente ipocrita nei casi opposti di “non contestazione”: quello della classe media, nella significativa la scena del Professore che compra libri “tanto per”, pronto a dire “cultura, cultura, cultura” perché, spiega Tina/Lilli Carati, “la parola cultura mi eccita”; così come in quello dei cadaveri ambulanti ed inservibili che circolano nella comune, ora addormentati, ora drogati, ora in inerte meditazione. Vittorio Caprioli, nei panni del Nazariota, recita con ironia il ruolo del messia parodico (“incazzatevi in cucina”), tutto do ut des: almeno consapevole di essere un saltimbanco, uno dei tanti.
Avere vent’anni di Fernando Di Leo, dunque, conserva la carica sensuale della commedia sexy, ma la rigenera dalla sterilità del piacere epidermico, inserendola in un meccanismo volutamente disturbante, di contestazione inceppata, in cui il dramma si produce dall’attrito tra l’aspirazione alla libertà – esistenziale, della carne – e la sovrastruttura di falsi profeti e profetesse.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".