Fa un po’ senso pensare che Steve Jobs sia il miglior film di Danny Boyle dai tempi del suo esordio, quello Shallow Grave (Piccoli omicidi tra amici, 1994) che aveva illuminato gli anni ’90, rivelando un nuovo talento nell’anno in cui Tarantino veniva portato sugli allori con Pulp Fiction (1994), un “Reservoir Dogs 2” che entrò prepotentemente nell’immaginario collettivo. Tra Shallow Grave e Steve Jobs corrono 21 anni di distanza. In questo range temporale Boyle ha sperimentato linguaggi diversi e si è scontrato con la sete di novità di un’industria come quella hollywoodiana, che puntava su di lui per trasformare DiCaprio in un grande attore. Ma The Beach (2000) si rivelò un film troppo difficile per entrambi. Sia per l’attore che per il regista. DiCaprio non era ancora entrato nelle fortunate maglie neuronali del cinema nolaniano e Boyle non aveva ancora scoperto le meraviglie di Bollywood.

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Così Boyle intraprende, dopo l’Oscar per The Millionaire (2008), una tendenza estetica già parzialmente iniziata con Sunshine (2007), thriller fantascientifico dove l’effimero prendeva corpo in tutta la sua obsolescenza intrinseca; girando due film paradigmatici per capire gli eccessi di un cinema figlio diretto di Mtv e dei videoclip: 127 ore (2011) e In trance (2013). Rispettivamente una regia effettistica e semplicistica e una regia effettistica che simula la grande costruzione hitchcockiana ribaltandola malamente. Entrambi i film risultano eccezionali dal punto di vista formale, ma lasciano il vuoto a posteriori, per la mancanza di una sintesi drammaturgica e per la fastidiosa esigenza di voler stupire a tutti i costi. In seguito l’arrivo sugli schermi di Steve Jobs indica la terza via per il regista inglese. Quella sul demiurgo della Apple è un’opera straordinariamente pulita, cubica, dove la sceneggiatura di Andrew Sorkin viene impaginata con un’eleganza formale d’altri tempi.

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Da Boyle era difficile aspettarsi una simile capacità di sintesi. Il sistema di intrecci aleatori di cui il tessuto narrativo del biopic su Jobs si compone lascia pensare ad una pre-produzione molto complessa, dove ogni dettaglio relativo al quadro di riferimento è stato inciso su una partitura a rime baciate, dove gli attori danzano come fossero ridotti a numeri da una regia telepatica, che osserva il mutare di uno schema mentale rigido e inflessibile. Simulare l’improvvisazione fluida e plastica degli ambienti attraverso una sontuosa messa in scena calibrata al millimetro: così Steve Jobs si ricollega all’altro grande film sulla contemporaneità: The Social Network, dove veniva ricostruita la battaglia legale tra Zuckerberg e i fratelli Winklewoss. Steve Jobs e The Social Network sono due film uniti dal lavoro di script di Andrew Sorkin, ma dove finisce la perfezione dello script e inizia la capacità di estrapolare senso nell’operazione di regia?

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Tra Boyle e Fincher scorre un fiume elettrico di visioni conturbanti ed eccessive. Semplicemente, Fincher ha avuto più talento nel controllo delle sue giostre narrative votate al nichilismo. Boyle ha lasciato la sua etichetta di “piromane della regia” in quasi tutti i suoi film, fin dai tempi in cui fece credere al mondo che Trainspotting (1996) fosse un grande film e non uno squallido remake del suo primo capolavoro. Ma Steve Jobs sta a dimostrare che qualsiasi piromane può essere ricondotto sulla retta via, con un cinema dove l’elaborazione del lutto si faccia algoritmo mostrativo (e non dimostrativo) di una concezione del mondo dove il Tempo fa da giudice e dove la dialettica furibonda con la realtà diventa appellativo menzognero per riconfigurare una surrealtà.

Chrisann Brennan (KATHERINE WATERSTON) with daughter Lisa Brennan (MAKENZIE MOSS) in “Steve Jobs”, directed by Academy Award® winner Danny Boyle and written by Academy Award® winner Aaron Sorkin. Set backstage in the minutes before three iconic product launches spanning Jobs’ career—beginning with the Macintosh in 1984, and ending with the unveiling of the iMac in 1998—the film takes us behind the scenes of the digital revolution to paint an intimate portrait of the brilliant man at its epicenter.

Se il personaggio di Kate Winslet è quello di una donna che è rimasta al fianco del genio venato di autismo e perfezionismo maniacale, fa da contraltare un’altra grande performance (dopo quella in The Martian) di Jeff Daniels, azionista-squalo costretto a issare bandiera bianca davanti allo strapotere dell’uomo che ha sottovalutato e non ha mai compreso, uno Steve Jobs incarnato da Michael Fassbender, perfetto relitto umano, come e più che su 12 Years a Slave (12 anni schiavo, 2013).

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).