Con Lars von Trier si va sul sicuro. Il suo cinema non piace sempre al pubblico, ma fa regolarmente versare diluvi di inchiostro alla critica, pronta a dividersi su uno degli autori più controversi di sempre, genio per alcuni, millantatore (o peggio) per altri.

 

Inutile quindi nascondersi dietro il proverbiale dito. Qualunque sia il giudizio che si dà dell’opera del danese, si troveranno sempre indignati detrattori o accorati difensori pronti a sostenere o dimostrare il contrario.
Un po’ come discutere di Berlusconi in Italia, insomma (il paragone pare sciocco e forse lo è. Però rende l’idea ed è così astruso da sviluppare che ci vorrebbe proprio un personaggio dotto ed eccentrico come Seligman, il protagonista maschile di Nymphomaniac, per renderlo calzante). Alla fine del carosello di parole, la somma rischia di essere zero. Quello che molti non notano infatti è che Lars von Trier gioca alquanto seriamente al suo gioco, infischiandosene tanto degli avversari come dei tifosi. E per questo vince.

 

Il suo atteggiamento non è tuttavia quello dell’entomologo di professione, come potrebbe essere per Michael Haneke o Ulrich Seidl (o in passato per Luis Buñuel). Non è il parallelismo uomo-insetto ad affascinarlo. I suoi personaggi non sono passati al microscopio. Non è nelle pieghe dell’anima e dei rapporti umani che fa luce von Trier, per quanto opere come Melancholia e Antichrist sembrino farvi diretto riferimento.
Le sue eroine, dai tempi della Bess di Breaking the Waves (Le Onde del Destino, 1996), cozzano contro il mondo senza trovare nicchie di compromesso, semplicemente fungendo da materia bruta, scabra, attraversata dagli stimoli più diversi. La “pazza” Bess è buona, in un’accezione molto degradata forse è persino santa. La Grace di Dogville (id., 2003) è fin troppo servizievole con gli abitanti del paese. La Joe di Nymphomaniac non può fermarsi nella sua patologia e se accetta accomodamenti presto li ripudia, come nella scena in cui proclama velenosamente “I’m a nymphomaniac and I love my cunt and my dirty, filthy lust!” mentre vomita tutto il proprio disprezzo in faccia alla comunità di recupero per sessodipendenti.

 

Più che identificarsi con le protagoniste, von Trier si fa partecipe della loro natura. L’esperimento è degno di un fisico o di un chimico, ma con una grossa dose di sprezzo del pericolo e del ridicolo. Come costoro infatti, il regista danese scruta i risultati dell’interazione dei personaggi in rapporto all’ambiente dato o con riguardo agli elementi impiegati (e in che misura). Questo spiega anche la logica dei suoi repentini cambiamenti di coordinate nella messa in scena: il Dogma, il suo abbandono in favore della stilizzazione teatrale e minimal di Dogville e Manderlay, il verismo nordico di Antichrist.
Il ritorno costante di alcune tematiche forti, già ben presenti nella letteratura e nel cinema dei paesi scandinavi (Kierkegaard, Strindberg, Dreyer, Bergman) è la riprova del suo grezzo sperimentalismo. L’ars combinatoria di von Trier non è raffinata nel dosare i componenti o dissimulare il campo da gioco (e questo indispettisce i critici), ma è abbastanza brillante da suggerire interpretazioni capziose e glosse sofistiche.

 

Ma quale è realmente la posta? Quali sono gli ingredienti di questo cinema? A nostro modo di vedere l’obiettivo dell’artista danese, il cui lavoro potrebbe essere definito come una forma di action painting registico, è far deflagrare e mandare in definitivo cortocircuito la cultura europea. Ingigantire le sue palesi aporie. A cominciare dalla supponenza delle sue dottrine eziologiche e fenomenologiche, che non sono in grado di essere applicate in maniera convincente nemmeno ad aspetti basilari della vita umana. In questo senso Nymphomaniac è addirittura l’apoteosi del cinema di Lars von Trier. Bisogna intendersi, però: Lars non è un autore come lo intende nell’accezione più in voga la critica.
La sola autorialità possibile per von Trier è nel gesto, nello slancio, persino nel sabotaggio inconsulto dell’opera – di qui le improvvide dichiarazioni sul nazismo a Cannes. Smontare i pezzi e ricostruire tutto con un altro ordine, non necessariamente usando tanto riguardo per il meccanismo (cosa che presuppone scrupolosità, finezza e pazienza di cui non sempre è capace, tanto che anche la sua ironia appare sovente grossolana e addirittura repulsiva).

 

Nel suo ultimo film, von Trier prende la struttura del Decameron, dei Racconti di Canterbury, delle Mille e Una Notte (tutti puntualmente citati) e l’assembla con una struttura da dialogo platonico, riutilizzando la divisione in capitoli di Le Onde del Destino. Quindi getta tutto nel tritacarne, con una brutalità abbastanza cinica, e d’altra parte si è detto che non è uomo da troppe sottigliezze, se non a modo suo. Può forse Seligman venire a capo di Joe? Evidentemente no, né col razionalismo né con l’intuizione né con la libera associazione di idee.
Man mano che procede nel racconto Joe è sempre più critica verso il suo esegeta-terapeuta, tanto da frustrare tutti i suoi bislacchi contorcimenti dialettici. Non si tratta tanto dei limiti dell’intelligenza di fronte alla forza dell’Eros (o della malattia), ma dello scacco matto subito dal pensiero occidentale – in senso lato, dato che la stragrande maggioranza dei riferimenti culturali del film e di von Trier stesso va alla cultura nordeuropea – e della sua inettitudine a determinare e valutare ogni realtà umana o fenomeno che da essa promani.

 

Gli esempi tratti dal film potrebbero essere innumerevoli (si pensi solo all’acre umorismo dell’indecifrabile discussione a membro ritto dei neri superdotati), e d’altronde sarebbero sufficienti i cervellotici collegamenti con i numeri di Fibonacci e il paragone tra gli strumenti della polifonia e i tre amanti prediletti di Joe nel Volume I a confermare l’impasse. Con un epilogo, quello in cui Seligman tenta inutilmente la “penetrazione” del mistero di Joe, che è infatti inequivocabile.
Il paradosso si riallaccia allora a quello in precedenza enunciato di Achille e della tartaruga, ma cambiando gli attori: l’erudito assume il ruolo dell’eroe della mitologia greca, mentre la conoscenza vera e certa lo precede sempre di (almeno) un’inezia. È un curioso contrappasso per un film che mette alla berlina le ambizioni dell’intelletto, quello di avere un finale quasi lapalissiano. Ma dato che Seligman non ha letto Ian Fleming, la colpa non può essere tutta di Lars von Trier.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...