Nel cinema i cambiamenti avvengono in modo talvolta simultaneo alle svolte tecnologiche e ai grandi mutamenti sociali. Il mondo cambia, e il cinema cambia con esso. Anche per questo motivo, si può parlare di “fine della narrazione classica” e nascita dello spettatore smaliziato. Gli esempi possono essere molteplici, ma basta prendere in considerazione due film: Inception di Christopher Nolan e War Horse di Steven Spielberg. Ovvero, il primo inteso come narrazione complicatissima, spiralizzata, tendente a confondere le acque, ad intorbidire il significato, a gettare sempre più ombre su un contenuto però sempre chiarissimo nella testa del suo autore. Il secondo si offre invece come un prototipo di cinema classico, che ama i suoi personaggi con un’innocenza mai vista nel cinema di oggi, proponendo situazioni che più classiche non potrebbero essere, anche a rischio di affondare nel deja-vu o addirittura nella retorica.

Si potrebbe dire che Spielberg non creda all’esistenza di uno spettatore che ha fagocitato film e serie tv per decenni, che ha ormai visto tutto, che è abituato anche ad una pornografia visiva ormai diffusasi quasi ad ogni livello della comunicazione, ad ogni media.
Nolan invece prende di petto il problema della narrazione classica e la stravolge, non crede alla diritta via, sconvolge ogni prospettiva di visione, rompendo tutte le regole, smaterializzando la narrazione senza però incorrere nella struttura fumosa e fine a se stessa, dell’insofferente miasma-visivo del Lynch di INLAND EMPIRE, (chi ha rivisto un vero film d’arte come Eraserhead (1977) ricorda bene di cosa era capace Lynch, quando riusciva a fare grandissimo cinema con pochi mezzi, senza mai irritare lo spettatore, ma concedendo sempre purezza all’immagine), costruendo un affascinante e concitato, ma leggerissimo, film-dedalo da cui non si esce, se non completamente travolti, da una macchina-cinema che riesce a superare le zone dell’inconscio per farsi immagine di un sogno-incubo che attanaglia e incupisce, ammalia e sorprende sempre per freschezza visiva e narrativa.
Nolan è troppo furbo per non pensare che lo spettatore non abbia visto una montagna di film di fantascienza, d conseguenza riparte da zero, costruisce, invece di ri-costruire (come fa Spielberg, ma anche come hanno fatto tutti i colleghi di quest’ultimo, da Raimi a Joe Dante fino a Zemeckis e Rodriguez), una narrazione che prenda di petto il problema del come tenere attiva l’attenzione dello spettatore, funzionando da regista-ipercritico che non si accontenta mai, ma che tiene ben salda la struttura narrativa, impedendo che la stessa collassi nel deja-vu e nel manierismo.
E’ difficile fare questo lavoro, perché non basta lo script, ci vuole anche un immaginario furbo e aggiornato che faccia da cassa di risonanza per le idee, ci vuole che le idee prendano corpo sullo schermo, altrimenti la scena è destinata a morire già bella fase di script.
A Spielberg in fondo interessa emozionare lo spettatore, rendendo il film un’esperienza comunicativa verso un immaginario già compreso in un altro, che si tratti di Fleming, Ford o Kurosawa. L’onore, la battaglia, il romanticismo, gli ideali, la guerra, il patriottismo. Probabilmente si tratta dell’ennesimo film reazionario di Spielberg, in fondo, il regista di The Jaws lo aveva fatto notare dai tempi di Catch me if you can (2003) che lui lavora per il Governo-FBI, che lui preferisce le regole piuttosto che infrangerle.
L’operazione di chirurgia narrativa compiuta da Nolan ha prodotto un film-labirinto, un fascinoso magma di pulsioni catartiche, di un cinema mentale ed ermetico, per i cultori del cyberpunk si tratta di una vera e propria manna dal cielo, un raggio di luce all’interno del mercato delle pseudo meraviglie di Hollywood capitanato dai Michael Bay di Transofrmers (sulla minuscola scheda di Film Tv alla voce di Transformers 3 Dark of the Moon, c’è un acuta descrizione del cinema di Bay: “Tonitruante e sfiancante, pura arte postindustriale, che acquista senso solo nell’interminabile battaglia finale: la computer graphic ha rubato l’anima al cinema, può permettersi di riscrivere la Storia e fare a meno della storia“).
Merita, infine, una menzione la colonna sonora di Hans Zimmer, un tappeto sonoro che si sposa alla perfezione con il tono oscuro del capolavoro di Nolan, un abissale profluvio di immagini sonore che si lascia ascoltare benissimo anche senza vedere il film. E’ il punto più alto raggiunto da Zimmer dai tempi de The Gladiator di Scott. Proprio di Ridley Scott ha girato quest’anno il prequel del suo secondo film più famoso in assoluto che è Alien (1979). Ancora una volta, un regista (Nolan) per innovare nel campo della sci-fi costruisce un nuovo mondo narrativo, si serve di un nuovo immaginario, di nuovi personaggi che fanno vivere sullo schermo l’illusione della perfezione del cinema. Dall’altro lato, invece, un regista come Scott, che torna alla sci-fi dopo ben 30 anni, ma stavolta non utilizzando un immaginario nuovo, bensì qualcosa di già visto, di appartenente al passato, una riscrittura di qualcosa che già in passato aveva dato ottimi frutti e che poi tra l’altro, era stato ripreso, con grande forza e grande coraggio da James Cameron nel sequel del 1986, andando a sfornare un immane opera hawksiana che squarciava il muri immutabile del deja-vu. Cameron operando su un immaginario già esistente aveva concepito una grande opera di cinema estatico e silenziosamente mostruoso, Ridley Scott sarà capace di costruire un film degno di questi due predecessori?
I due critici Pier Maria Bocchi ed Eugenio Renzi hanno risposto in maniera negativa.
Che abbiano ragione? Le premesse non erano di certo favorevoli a Scott. Il film esce a settembre ed è già uno dei più richiesti e cliccati in rete. Forse per le potenti scenografie e per il cast sontuoso. Ma scenografie e cast non hanno mai fatto da sole il film.

Queste sono le premesse. Il film sarà un banco di prova finale per l’ex-autore Ridley Scott.

A proposito dell'autore

Avatar photo

Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).