Tra le vette dell’ultima fase del cinema di Ridley Scott, vi è la scena in The Counselor Il procuratore dove l’orafo (Bruno Ganz) spiega al procuratore in procinto di sposarsi (Michael Fassbender) quali sono state le due grandi culture nella Storia: quella ebrea e quella greca. Perché al centro di una cultura che possa ritenersi tale vi è la figura dell’eroe. Ebbene, il cinema americano degli ultimi 30 anni se ha prodotto la figura di un’eroe vero, multiforme, perfettamente calato in un contesto in perenne mutazione, quella figura appartiene a Tom Cruise, che più del seppur grandissimo Bruce Willis o Schwarzenegger e Stallone, ha avuto la fortuna sfacciata di invecchiare bene.

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Si potrebbe dire che negli ultimi 10 anni, l’obsolescenza programmata della ex-moglie Nicole Kidman va di pari passo con una progressiva, inarrestabile maturazione del Divo Cruise. Di certo la sua incredibile tenuta sullo schermo dai tempi di Legend e The Color fo Money fino a Oblivion, Edge of Tomorrow e gli ultimi due Mission Impossible (Ghost Protocol e Rogue Nation, praticamente due testi ferocia teorica fuori dagli schemi di Hollywood), ha un che di simbolico che trascende i limiti imposti dallo schermo. Altri divi-eori come Brad Pitt, Leonardo Di Caprio hanno sostenuto nel tempo una intelligente ammnistrazione dell’immagine prendendo parte a grandi film, captando le giuste spie di un tempo in perenne mutamento. Con Cruise la figura dell’eroe viene rivestita dal movimento teorico della profondità di campo, dove il linguaggio dell’action diventa tutt’uno con una matematica programmata intorno alla classicità del genere. Rogue Nation supera la soglia di sequel per farsi citazionsimo hitchockiano divertito a malleabile intorno all’occhio che gode di una nuova rifinitura estetica del corpo-a-corpo, dove Rebecca Ferguson si impone come doppio speculare effettivo. Ghost Protocol rivela l’assimilazione della indefferenziazione tra gender, dove Paula Patton e Lea Seydoux (che differenza rispetto al ruolo visto in Spectre!) dimostrano l’intercambiabilità tra maschile e femminile, rendendo del tutto ininfluente il passaggio verso la contemporaneità liquida, che definisce la sommatoria XX+XY in un nuovo codice genetico dove le possibilità diventano eternamente imprevedibili.

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Il tempo dell’eroe è il tempo di un cinema che può fare i conti solo sulla propria capacità d’inventiva. Da Oblivion a Rogue Nation, il corpo-Cruise attraversa il congegno liquido dell’immagine plastificata in un tempo altro, per parlare di un futuro che deve ancora venire. La capacità pre-cognitiva della Star Cruise è il fattore X che determina il rinnovamento diegetico di una forma attoriale che si serializza ma non da adito a gemmazioni. Lo stile Cruise è si inimitabile, percorso da una vena di malinconica perfezione tutta tesa alla riproposizione di una magia non estinguibile. Lo spettacolo proposto è endogeno alla riproduzione senza soluzione di continuità della mpd.  in questo senso non si scorge alcuna sottotraccia d’involuto manierismo (di cui la Kidman è vittima più volte). La sicurezza di un buon script e il talento di un regista all’altezza conferiscono a Cruise la certezza cristallina che il brand non subisca l’usura del tempo. La veridicità del suo cinema d’azione risiede in una sicurezza d’acciaio impostata su una narrazione mitopoietica che potrebbe andare avanti ad oltranza.

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La cultura americana si riallaccia da sempre al mito della Frontiera. Dalla Star Cruise è complementare la certezza che la Patria sarà messa al sicuro dall’infiltrazione di agenti endogeni, nella certezza che ci sia sempre necessità di confrontarsi con le sfide più impervie per assicurare alla giustizia il villain di turno. Ma rivedere The Color of Money, riaccende nella memoria ciò che il movimento non trascende più in atto involontario di una nemesi orami sempre più dichiarata, come l’oggetto definitivo del desiderio, che pervade il tempo. La copia remastered del film di Scorsese riporta alla disputa tra old/young, tra un Paul Newman giocoliere esperto degli umani sentimenti e un Cruise che già assapora la soddisfazione di sedere al trono degli immortali. Il colore dei soldi è il colore del moto verso la vittoria sancita da un legame indissolubile tra l’abilità con la stecca da biliardo e l’amore per la ragazza (Mary Eizabeth Mastrantonio), tale da renderlo un giovane uomo che ha il mondo ai suoi piedi. E’ l’eterno destino di chi ha visto nascere la propria stella nei fulgidi anni ’80. Certo, The Color of Money non avrà l’eresia estetica di un After Hours o di un Blue Velvet, ma è proprio per questo che la figura dell’eroe viene vista nel suo nascere, prima che si arrivi a A Few Good Men (1992) e il franchise di Mission Impossible, a definire concretamente una linea vittoriale che non smette ancora di sorprendere e di incantare.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).