Il cinema è un media che ha la funzione di esprimere si un modo di pensare, ma ha soprattutto io dovere, se non morale per lo meno dialettico, di trovare una via espressiva quanto più onesta e coerente all’organicità di una visione che possa essere più o meno personale, ma che comunque si sforzi di ricreare un mondo mentale evitando una confusione che porterebbe all’allontanamento del senso.

Da questo modello ideologico, film apparentemente “fumosi” come Eraserhead di Lynch e Tropical Malady di Weerasethakul e forse anche L’Ignoto spazio profondo di Herzog vengono esentati da ogni forma di critica, perché, piacciano o meno, conservano un’ onestà intellettuale che li preserva da un qualsiasi attacco in nome di una incomprensione più o meno generalizzata.

Sono tre film di un tale fascino e genialità visiva che magari possono irritare, ma non portano ad una totale e continua frustrazione da parte dello spettatore.
Al contrario, tre operazioni come INLAND EMPIRE di Lynch, Enter the void di Gaspar Noé e Holy Motors di Carax, portano il cinema su un altro livello, dove il genio e il fumo si confondono vicendevolmente.
Lynch, dopo aver illuminato con le sue iniziali visioni in b/n, annaspa in un territorio a lui straniero e avverso, il digitale, recuperando una grana grossa, porosa, magmatica, dimenticandosi completamente di raccontare una storia, ma confondendo spesso l’ironia della vicenda con l’orrore e il grottesco, firmando un’opera contrassegnata dalla disillusione nei confronti di un cinema che possa ancora far battere forte il cuore pulsante di un’idea non ancora vilipesa dal germe raffazzonato della maniera ludica e fine a se stessa.
Gaspar Noé dal canto suo, con Enter the void non tenta nemmeno di azzardare un discorso che possa configurare una serietà di visione, il suo (pseudo?) cinema non arriva mai a farsi veramente cinema, perché rimane solo ed esclusivamente maniera, videogioco, scherzo lisergico, facendosi beffe di ogni convenzione narrativa ed estetica.
Noé non crede nel cinema e rafforza la propria visione di eremita del cinema, creando un caleidoscopio visivo che attrae e prende sontuosamente in giro lo spettatore. Il regista francese sembra dirlo esplicitamente che il suo non è un film che vuole essere preso sul serio, essendo palesemente un gioco che mima il cinema per diventare qualcos’altro, affermandosi come stantio videoclip, annoiante e furioso, sena ami avere una vaga idea di come debba essere fatto un film. A meno che le luci al neon piacciano così tanto da voler trasformare il cinema nell’anticamera di una discoteca dove si suona sempre la stessa nota stonata.
In Holy Motors di Leo Carax invece si predilige un cinema-cassapanca. Andate giù in solaio, prendete una cassapanca, una cassetta, un baule, quello che vi pare, apritelo e iniziate a tirare fuori tutte le cianfrusaglie che ci sono dentro, una dopo l’altra. Questa è la struttura di Holy Motors, non c’è altro. Il protagonista viaggia dentro una limousine, si cambia ogni volta d’aspetto e interpreta diversi personaggi. Così, senza alcun motivo, si va da un personaggio all’altro, senza una linea narrativa ma soprattutto con tanta supponenza visiva e totale mancanza di una visione concreta di cinema.
Un cinema fatto anche bene in alcuni punti, ma il senso latita, perché se un dovesse legittimare un lavoro del genere allora bisognerebbe dar ragione a tutti gli artisti visivi che ci sono in circolazione.
Se Carax vuole fare l’artista visivo sono fatti suoi, io mi tengo un cinema più sobrio e meno sconnesso con la realtà. Meno fatti, ma raccontati meglio, con meno fare terroristico (ma forse l’unico vero cinema terroristico oggi lo fa Bruno Dumont) e più concretezza, più semplicità, più allusività, più senso illusionistico della visione e magari anche più senso di costruttività, per un immaginario che si pensi armonico, nonostante sia attraversato da forze contrastanti tra di loro.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).