Il ritorno al cinema punk di David Cronenberg è commovente. Dopo l’ingessatura provocata in parte dalla presenza di Viggo Mortensen, Cronenberg sembra essersi liberato di una zavorra che era diventata insostenibile. Da A History of Violence (2005) a A Dangerous Method (2011) si era assistiti al compimento radicale di una linearità narrativa che aveva tolto ogni spazio di manovra all’ex “Barone del sangue”, come veniva chiamato a Hollywood ai tempi di Videodrome (1983) e Inseparabili (1988). Cosmopolis era basato sull’equivoco della descrizione dei meccanismi finanziari costruita su una narrazione che viaggiava ondivaga senza un centro preciso di azione.

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Maps to the Stars è un film lercio, orrendo, inqualificabile e mortalmente comico. Una screwball comedy girata pensando con un registro horror che spariglia tutte le carte in tavola. Tutto il lavoro di montaggio è un vero miracolo e dimostra quanto Cronenberg abbia voluto tornare ad uno stadio sperimentale del suo modo di vedere l’inquadratura. Maps to the Stars è tagliato con la scure bicefala di un cineasta che perseguita i suoi personaggi-psicopatici fino alla morte. Nel finale Christina Weiss/Olivia Williams prende fuoco come una torcia umana e la vendetta di Agatha Weiss/Mia Wasikowska diventa un sigillo di prepotenza registica che si temeva di non vedere più nel cinema di Cronenberg.

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Il cineasta canadese sa ancora come si fa a pensare un horror psicotico che invada la sfera sensoriale e vada ad incunearsi nell’interfaccia tra realtà e finzione. I misteri della psiche sono insondabili, Cronenberg li usa come una sciarada infima e complessa. Se si dice che Maps to the Stars è un film levigato, lucido e gelido non ci si rende conto del marcio interiore, di una sporcizia che si insinua ad ogni angolo, a cui Cronenberg non dà più di tanto peso per accendere il livello più basso della commedia. Le battute sono sempre scritte in punta di penna: si avverte la sensazione di una danza macabra insensata e demente.

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I corpi nudi di Cronenberg sono materiali di scarto di una società che ha tutto, in un contesto simile il fantastico-grottesco rimane la cifra più sensibile di uno stile che si fa ricerca idiota del volto sfigurato. Alla fine se la diva repellente Havana Segrand di Julianne Moore muore e i due ragazzini si suicidano (fuori campo), ci si rende conto che la sciarada ha lasciato dietro di se un vuoto cosmico di personaggi che cercano disperatamente un senso senza mai trovarlo. La differenza principale con Cosmopolis è che qui lo sguardo di Cronenberg acquista una consapevolezza ironica tale da rubare all’horror la sua impronta più impermeabile e folle.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).