Un giudizio così solo 5 anni fa sarebbe parso del tutto fuori luogo. Ma oggi va quasi impressione. Se dovessimo fare un confronto alla distanza tra il progetto sul Che firmato Soderbergh e il monumentale sforzo registico di Lynch INLAND EMPIRE, si potrebbe dire che la Palma andrebbe al primo. Un regista mercenario e manierista come Soderbergh ha fatto il primo film consapevole della sua carriera. Un progetto diviso in due parti direttamente speculari e interposte, la prima che introduce la seconda, la seconda che annega nella prima, entrambe facente parte di un discorso molto più vasto sull’atto del guardare e sull’atto del filmare, con una scena finale di “morte della soggettiva” che è probabilmente un manifesto di politica estetica: come inquadrare e perché. Quello che si trova nel Che di Soderbergh è un processo di spoliazione forse molto simile a quello perseguito da Fincher in Zodiac, altro film poco e male compreso da una certa critica. Quello che interessa a Soderbergh non è dimostrare di avere uno stile, ma cercare il senso del filmare ponendo al centro della scena l’uomo Guevara e le sue scelte di fronte alla battaglia e alla rivoluzione. Solo questo. Ecco perché Andrea Renzi corrispondente per i Cahiers sul mensile Ciak ha citato il cinema di Straub-Huillet. Soderbergh pone un limite allo sguardo e lo perlustra: questo è il motivo per cui la seconda parte sembra così prolissa e distante dalla lucida, geometrica spettacolarità della prima parte.

Discorso opposto si fa per INLAND EMPIRE di Lynch. Qui abbiamo un regista arrogante e presuntuoso che gira un film antipatico e saccente, sfoderando una serie di carrelli “aurei” perché posti sotto la lente d’ingrandimento offerta dal digitale e sottopone gli attori/personaggi ad un tour de force di inquadrature che servono solo a mostrare l’inutilità del digitale. Non che INLAND EMPIRE sia un film “brutto”, perché in questo film così “anti cinematografico” la cosiddetta bruttezza del digitale citata da Tassi su Cineforum non esiste: INLAND EMPIRE è esattamente il contrario, un film molto patinato, quasi traslucido, quasi assomigliasse ad un film amatoriale girato in casa. Che strano, perché anche il dittico sul Che di Soderbergh è girato in digitale, ma che differenza! Proprio Soderbergh che aveva girato pessimi film come Sesso, bugie e videotapes; Erin Brokovich, Ocean’s eleven 2, l’ancora più brutto Bubble, una squallida storiella sulla banalità del male; adesso supera il maestro Lynch, autore di capolavori recenti come Strade Perdute, Una Storia Vera e Mulholland Dr.!

In tempi in cui l’uso del digitale (che tra l’altro è una tecnologia di ripresa a basso costo) è ormai la norma, Lynch non riesce nel tentativo di “trasformare” il digitale in pellicola, cosa in cui Soderbergh eccelle con una semplicità e una finezza di tocco davvero inaspettate. Forse anche questo è un segno dei tempi (anche Tim Burton su Sweeney Todd ha usato il digitale in maniera non del tutto conforme al suo genio registico, e nel film si nota parecchio). Il digitale deve essere concepito come uno strumento utile che può anche diventare un’arma a doppio taglio.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).