Il cinema è l’atto dell’imprinting visivo, talvolta visionario, che sorregge l’impalcatura estetica da cui provengono le metamorfosi dei sogni. Già lo disse David Lynch in Lost Highway, con la soggettiva quasi impercettibile di Bill Pullman che fissa “lo spazio del sogno” nel movimento orizzontale da destra a sinistra dove al cento quasi di sfuggita compariva il Mystery Man. Sono tre i film che assumono un rapporto diretto con l’imprinting visivo, tre opere in qualche modo iniziali e definitive di un discorso già in qualche modo iniziato altrove: Vincere (2009) di Marco Bellocchio, la trilogia di Pablo Larrain su Pinochet, Tony Manero (2008), Post Mortem (2010), No (2012), (da considerarsi come un blocco unico) e Prometheus (2012) di Ridley Scott.

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Bellocchio, Larrain e Scott formano la loro concezione visiva sul luogo di una disputa accesissima, su cui realizzare immagini potentissime e distorcenti il quadro immaginativo: la Storia intesa come fabula re-interpretata da uno sguardo critico. Il loro potere semantico si avvale di una struttura narrativa dove lo studio dei caratteri funge da approdo ad una sistematica ricombinazione dello spazio in un altro tempo, quest’ultimo percepibile forse, solo in uno stato di veglia mnemonica. Bellocchio e Larrain ricostruiscono in modo lampante l’esegesi dello sguardo nel tempo, usando delle organiche ricostruzioni d’epoca, offrendo una stilizzazione di racconti  immersi un un tempo devastato e ancora denso di interrogativi, facendosi carico di ogni scrupolo morale pur di arrivare ad una esatta realizzazione di quel mare-nostrum che è stata la Storia, vilipesa da decenni di rivalutazioni, re-interpretazioni più o meno reazionarie che hanno contribuito a restituire, nel tempo, un’idea tendenzialmente capovolta della realtà.

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Ebbene, ci pensano Bellocchio e Larrian a rinfrescare la memoria sui fatti gravissimi, inauditi, relativi ai due grandi dittatori, Benito Mussolini e Augusto Pinochet. Bellocchio filma il suo Vincere con un atto di cinema ripiegato su una sinfonia densa di rimandi, di continue finestre interpretative colme di dolore e di oltraggio, riuscendo a “frustare” la Storia e piegarla al suo volere, montando su un atto di accusa contro il Regime che difficilmente potrà essere dimenticato. Le performance di Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi sono gioielli che emergono dal buio di una notte densa di enigmi. Sono gli enigmi della Storia che non troveranno mai risposta, rimarranno lì sullo schermo,  ad inquietare finché la memoria ne protrarrà la traccia infinitesimale. La regia di Bellocchio si muove finalmente scevra da ideologismi e trova nella fotografia di Daniele Ciprì un alleato di formidabile sostanza materica. Nella sua interezza Vincere assomiglia ad un grande incubo, da cui si viene rapiti e da cui è difficile uscire senza dichiarare la propria resa di fronte alla sua riuscita solenne e magistrale.

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Larrain dedica alla figura di Pinochet ben tre film. Mai era successa una cosa simile nel contesto del cinema d’impegno civile (ma se Joshua Oppenheimer facesse un terzo film sul genocidio dei Comunisti in Indonesia, dopo The Act of Killing e The Look of Silence, si conterebbe un secondo caso). Il regista cileno si muove con una sicurezza geometrica da far tremare i polsi: prima descrive il contesto storico di un paese assediato dai cingolati, con il loro rumore assordante e definitivo, poi descrive con precisione chirurgica il tempo devastato di un paese che non ha più il diritto alla libertà, che non ha più voce e che si lascia colonizzare dall’imperialismo americano dopo aver perso la grande battaglia del golpe, che Larrain descrive in Post Mortem senza avere più alcuna pietà per i propri personaggi; in seguito mette in piedi una straordinaria operazione di cinema-shining con No, ricostruendo l’incredibile vittoria del No nel Referendum che contro ogni sondaggio, che servì a liberare il Cile da una dittatura sanguinosa e aberrante, in un film in cui Larrain offre un gigantesco lavoro di profilmico, con una fotografia “da presa diretta” e il solito stile nervoso ma stavolta più sereno ed ironico. Quello di Larrain è uno sguardo prima di tutto attonito e impotente davanti alla raffigurazione di un tempo, quello del golpe, che nei tre film appare come eterno. Come se dopo il 1972 in Cile le lancette dell’orologio si fossero fermate.

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Dal canto suo Ridley Scott in Promethus riscrive i canoni del genere fantascientifico, dopo aver creato la saga di Alien con il film del 1979 e aver lasciato la regia dei 3 seguiti ai colleghi James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet, decide che è ora di tornare al timone di quella che rimane la sua creatura più incisiva, calibrata e organica. Scott in Prometheus, lo dico con tutta onestà dopo 4 visioni del film, non sembra lontanamente quello di Hannibal e Il Gladiatore. Molti hanno accusato un film come Prometheus di avere troppe incertezze nello script, con errori grossolani e personaggi poco credibili. Io posso solo affermare che quelle che ad una prima visione sembrano falle di script, altro non sono che voragini di senso. In questa fantascienza neo classicista il senso si annida dove meno lo si aspetta, nei rapporti tra Peter Weyland (Guy Pearce) e Meredith Vickers (Charlize Theron), nel duello a distanza tra l’androide David (Michael Fassbender) e la Dottoressa Elizabeth Shaw (Noomi Rapace). La stessa scena dell’auto aborto della Dottoressa Show è il segno tangibile che Ridley Scott crede ancora nel cinema, appoggiando un disegno autorialista che parte da di Roger Corman per arrivare a  John Carpenter.

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Il cinema come fonte immaginifica di ritratti innestati nell’impriting di uno spazio-tempo alternativo, fanno del mezzo un efficace strumento di comprensione del reale che appare sempre più sfuggente. Il cinema serve a mettere in prospettiva la Storia con una forma-fabula che riporti l’immagine al suo antico lustro di vettore emozionale di volti-luoghi-metamorfosi. La scommessa della visione è la sfida verso un’immaginario già saturo di visioni e immagini pre esistenti. Bellocchio, Larrain e Ridley Scott hanno trovato la quadratura del cerchio per confutare l’assioma sul cinema come macchina di morte al lavoro, costruendo perfetti film tentacolari che organizzano lo spazio prendendo in considerazione le 4 dimensioni, dove la coordinata temporale assume il valore più importante, il valore strategico di una rimozione post-visiva che possa iniziare solo aprendo gli occhi su un nuovo imprinting che serva ad aprire l’orizzonte su una nuova visione del tutto inedita ed emozionale.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).