Ovvio che non sia stato capito l’ultimo melò di James Gray, The Immigrant (C’era una volta a New York). A volte per andare avanti rispetto a tutti gli altri, bisogna tornare indietro tutta, riprendendo in considerazione tutto il cotè classicista possibile.
The Immigrant è attraversato da una sete di purezza che viene rimestata nel torrente narrativo per gocce, attraverso distillati aulici e privi di stilizzazione emotiva. Marion Cotillard interpreta una ragazza povera e pura di cuore che fa i salti mortali pur di pagare le cure alla sorella malata (che non si vedrà se non all’inizio e alla fine, senza nessun bisogno di montaggio alternato tra le due sorelle), si compromette moralmente, arrivando alle posizioni più basse della società e il suo cuore ne risente.
L’attrice francese lascia che il suo volto incanti la scena e James Gray la filma senza reticenze, arrivando a vette sublimi del suo cinema, come nella sequenza della Chiesa dove la Cotillard prega la Madonna con una tale intensità che riporta ala mente i classici italiani anni ’60, con un calore di cui non si aveva più memoria da tempo.
In tempi di cinismo quasi stomachevole (vedesi soprattutto l’ultima operazione di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street che va a scoprire proprio questo nervo che investe la società, oggi), Gray torna indietro, all’immagine pura, quella che rivela il cimelio più nascosto, il cuore del romanzo, fondendo la commedia, il dramma, la riflessione storica e crime movie, utilizzando la fotografia da Oscar di Darius Khondji come leva estetica per accedere la sfumature più intense della rappresentazione musicale della narrazione.
Ogni duetto tra Cotillard e Joaquin Phoenix aggiunge tasselli alla decantazione della love story, procedendo nella lenta recriminazione di un amore violato, di un minimo comun denominatore che è il bagliore del secolo appena passato: l’accettazione da parte di una comunità puritana, di un elemento esterno che viene a sconvolgere un intero quadro d’insieme.
La Storia viene setacciata in cerca di verità. La cattolica Ewa intromette il suo fiore all’interno di un microcosmo sociale che non è pronto ad accoglierlo, la conseguenza è l’accettazione della sconfitta da parte di entrambi gli elementi maschili: Bruno, che alla fine lascia libera Ewa di andare insieme a sua sorella; Orlando, che perde la vita in uno scontro fortuito. Ewa alla fine riuscirà a liberarsi del suo cappio, ma solo dopo aver sofferto, dopo essere stata offesa e maltrattata, comunque senza mai perdere la sua fede e la speranza.
Gray termina il suo melò con un piano parallelo tra le due sorelle che si dirigono verso un nuovo corso, in mare con una barca, mentre nell’altra metà dell’inquadratura Bruno si allontana, mestamente: Ewa e Bruno e non si rivedranno mai più, hanno accettato le regole della loro disputa solo dopo un abbandono.

E’ la chiave misterica del melò firmato da Gray: filmare la direzione in cui lo sguardo intenso di Marion Cotillard punta, assumendo il suo punto di vista esterno, su un contesto storico dove l’America come “terra dalle grandi opportunità” viene in parte denigrata. Si parla di pregiudizi e di razzismo, di emarginazione sociale e di compromessi pesanti in nome della sopravvivenza.

La storia di Ewa di riflette nella Storia, quest’ultima viene rivelata come un denominatore che sfugge sempre tra le pieghe della realtà e del sogno. Gray lo filma con sapiente armonia.

A proposito dell'autore

Avatar photo

Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).